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Quello squarcio che ci rompe dentro. Un’onda anomala che sommerge e stravolge la vita, che, anche quando si ritira, lascia dietro di sé detriti e macerie. Dolore, paura, vergogna. Ed è su questa parola che vorrei fermarmi: la vergogna. In una società che ci ingiunge di essere tonici, efficienti, di avere successo, di essere sempre sorridenti, eternamente giovani, di perseguire euforici l’autoaffermazione, sempre un po’ innamorati, sempre indaffarati a riempire il carrello dell’usa e getta, la tristezza, l’insicurezza, la crisi mettono vergogna. Così, può succedere che all’indomani della laurea, quando tutto e tutti ci ingiungono di correre radiosi incontro al futuro, di mostrare al mondo che siamo forti e capaci, può succedere che vinca l’angoscia, quella più spietata, totalizzante, quella che ci rompe dentro. Ed è vergogna, ancora vergogna, poi. La possibilità del crollo, del default non si dà. Eppure, come dimostra questa lettera densa e luminosa, può attraversare il crollo anche chi è straordinariamente intelligente, sensibile, appassionato della vita. Il dolore, l’insicurezza profonda, la stanchezza radicale dell’anima sono fardelli pesanti, che è necessario condividere con chi ci può aiutare ( con la cura delle parole, come la psicoterapia, ma anche con delle buone medicine) ma io credo che, se intorno a chi patisce quel dolore, ci fosse un poco più di accettazione delle ombre della vita, un po’ meno paura del lato oscuro dell’esistenza, un po’ più di empatia verso lo sgomento nostro e altrui, se insomma ci fosse un po’ meno vergogna a stare male,

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